La reazione dei sindacati e della maggior parte degli insegnanti all’ipotesi di lavorare anche d’estate fa pensare ad una grande coda di paglia che prende fuoco. È bastata una voce di corridoio, una proposta fumosa ed intravista appena a far trasalire da dietro la scrivania questi attori della scuola pubblica. Prima ancora di aver avuto sotto mano la proposta completa di Draghi, hanno dato vita ad uno show imbarazzante fatto di inutili risentimenti e proteste – neanche poi così irragionevoli – poste nel peggiore dei modi possibili. Avrebbero potuto far valere le loro istanze in un dibattito pulito, ma hanno preferito arroccarsi fin da subito dietro uno scudo di orgoglio e sentimenti offesi. Si sono sentiti solleticati nel punto dove più brucia e cioè sulla qualità del lavoro da essi svolto, e per questo si sono chiusi a riccio mostrando all’opinione pubblica un muso di cavallo ilare se non addirittura surreale.
“Surreale” poiché la realtà è che nessuno ha mai detto che il loro lavoro non è stato dignitoso; nessuno ha mai detto che è stato facile convertire la didattica e riadattarsi in una situazione poco familiare per tutti. Insomma, nessuno ha mai dato loro la colpa del tempo che è stato perso, e che in verità è scivolato via fondamentalmente per i seguenti motivi:
- La pandemia in sé (come è ovvio).
- L’inadeguatezza degli strumenti posseduti da una fetta importante dei ragazzi.
- L’inadeguatezza in termini di preparazione tecnica del personale della pubblica istruzione.
- L’inadeguatezza della risposta politica.
Nessuno di questi punti si può far risalire ad una vera e propria colpa degli insegnanti, o meglio, il primo sicuramente no. Il secondo neanche. Il terzo è sì un problema legato alle competenze del personale, ma è anche vero che tutto il sistema scolastico non era pronto. Il quarto lo è più o meno indirettamente, poiché gli insegnanti e i sindacati avrebbero potuto fare molta più pressione sul governo (proprio come stanno facendo adesso). Evidentemente nessuno si è sentito ferito nell’orgoglio quando l’intero mondo dell’istruzione è stato lasciato indietro per mesi, quando nello stesso decreto sono stati stanziati 3 miliardi di fondi pubblici per Alitalia e solo 1,4 per l’Istruzione. Forse perché sul piatto non c’è mai stato il rischio di dover lavorare qualche giorno in più.
Tralasciando questo sassolino che era nella scarpa da un po’, per quali ulteriori motivi è così ridicolo, in questa situazione, appellarsi agli sforzi fatti e sentirsi offesi?
Per via della pandemia ogni lavoratore, di qualsiasi tipo, ha dovuto fare sacrifici in termini salariali, psicologici, di investimenti andati in fumo per colpa dell’inefficienza delle regolamentazioni, di anticipi di cassa integrazione, di pianificazione di una vita che è scivolata tra le dita, ecc… Non bastasse, il futuro si prospetta costellato di ulteriori sacrifici da espletare per rimettersi in carreggiata. Quasi tutti dovremo lavorare molto di più e meglio, dovremo investire di nuovo, recuperare i debiti contratti e qualcuno perderà sicuramente il lavoro…nonostante gli sforzi.
Con questo non voglio affatto proporre il ragionamento sciocco del “mal comune mezzo gaudio”. Ma bisogna sottolineare che, nella crisi pandemica, di sforzi dignitosi come quelli portati avanti anche dal personale scolastico ce ne sono stati a valanghe, ma essi non si sono trasformati necessariamente in risultati.
Da questo punto di vista, le lamentele di lavoratori dal salario garantito che scattano sull’attenti e si gonfiano di orgoglio quando viene chiesto loro di lavorare un mese in più, appaiono veramente come una presa in giro. Ancor più grave, appare in tutto il suo dramma il distacco fra quello che è il mestiere dell’insegnante – che si configura come meccanico e privo di prospettive – e quello che dovrebbe essere il suo risultato, il suo prodotto, il suo successo.
La reazione emotiva degli insegnanti e dei sindacati, a tratti davvero isterica, dovrebbe farci riflettere su un sistema tossico che guarda solo a se stesso e non al suo scopo, su un’offerta pubblica che sente di aver già fatto abbastanza anche quando il dramma formativo è sotto gli occhi di tutti e a risentirne saranno le prospettive di vita degli studenti. Dovrebbe farci riflettere su un sistema in perenne complesso di inferiorità, dove l’impotenza e la frustrazione fagocitano in maniera inesorabile il merito e l’efficienza sia degli alunni che degli insegnanti.
Bisogna smettere di considerare gli studenti come beneficiari passivi di un servizio elargito da orgogliosi sull’orlo di una crisi di nervi. Bisognerebbe iniziare, piuttosto, a considerarli come la risorsa principale di un Paese che vuole tornare ad essere grande, come il centro di un’Istruzione Pubblica che gli ruoti intorno.