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La Storia secondo Marx: tra ideologia e religione

Per comprendere quanto possa essere fallace semplificare la totalità della storia umana in modelli universali è utile risalire verso la sorgente dalla quale Marx ha attinto a piene mani per la formulazione della teoria della “lotta di classe”. È infatti efficace delineare una continuità fra le prime teorizzazioni di conflitto fra gruppi sociali come “motore della storia” e quelle marxiane di qualche decennio successive, poiché ci dà l’idea di quanto ingenuo possa essere continuare a reiterare questo tipo di lettura del mondo e della storia al giorno d’oggi.

Ci troviamo nella Francia del primo Ottocento e comincia a prendere piede un nuovo modo di studiare la storia: è il mestiere storiografico, quello che si fa sulle fonti, negli archivi. Thierry e Guizot, entrambi storici di scuola liberale, sono i primi a tentare un’interpretazione storica dal carattere più o meno universale.

I due, infatti, considerano la Rivoluzione Francese come il violento culmine di una disputa secolare fra “razze” che ha avuto origine nel primo Medioevo. Le genti del Terzo Stato erano per loro gli eredi delle popolazioni gallo-romane oppresse dalla nobiltà francese, la quale discendeva a sua volta dai conquistatori franchi.

Riuscite ad immaginare cosa succederebbe se un intellettuale contemporaneo provasse ad avvicinarsi alla comunità scientifica di riferimento portando avanti una tesi storica del genere o una tesi socio-economica basata su simili presupposti? Verrebbe probabilmente presa per una burla.

Ma è proprio sulla base di questa lettura della Storia come di un divenire scandito e prodotto dal continuo conflitto fra gruppi sociali che Marx ha maturato gli strumenti per formulare la sua teoria della lotta di classe.

Nonostante quest’ultima fosse da diversi punti di vista più matura dalla teoria dei due liberali (come per esempio la categorizzazione dei gruppi in conflitto su base economica e non biologica), essa presenta le stesse problematiche e le stesse fallacie logiche di fondo, insite nel tentativo stesso di “inscatolare” in categorie e paradigmi assoluti la complessità della storia umana, spingendosi finanche nel prevederne l’evoluzione ed una sua “risoluzione” finale nella dittatura del proletariato.

Questa impresa intellettuale di fatto impossibile porta l’idea di Marx ad assomigliare ad una teologia, piuttosto che ad una teoria sociale.

Tale concetto, ci viene fatto notare da Yuval Noah Harari nel suo libro “Sapiens, da animali a dei” e si può riassumere nella compresenza di due fattori: fede in un ordine che va oltre l’uomo, e le conseguenze che esso ha sul comportamento dei fedeli.

Come ogni religione, in sintesi, offre agli adepti un orizzonte di senso (basato su nessuna evidenza) all’interno del quale racchiudere la realtà.

Esso non può non tangere quindi la dimensione morale che, espressa dal potere politico, porta il sistema in cui opera ad assumere la connotazione di Stato Etico.

Uno Stato dove il concetto di individuo viene meno, dove si impone con imperio la morale e il modello del mondo di pochi detentori del potere su tutta la collettività.

Non è un caso che gli stati che provarono a mettere in pratica il marxismo sono sempre degenerati in autoritarismi e/o totalitarismi; non è un caso che lo stesso Marx non offra alcuna filosofia dello stato a corollario delle sue opere politiche. Probabilmente il filosofo tedesco aveva intuito che senza un’imposizione violenta, senza l’oppressione della diversità e senza l’abbandono della razionalità (specialmente oggi), il paradiso del comunismo non avrebbe mai potuto realizzarsi.

 

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1 comment

Dario Greggio 06/11/2020 at 12:54

il molise non esiste 🙂

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