Esiste il diritto all’aborto? Ma, soprattutto, cos’è un diritto e perché la sentenza della Corte Suprema sull’aborto è valida e non necessariamente ingiusta?
L’aborto è probabilmente il tema più complesso e con le ragioni più valide e significative da ambo le parti del dibattito bioetico. L’interruzione volontaria di gravidanza è infatti un argomento controverso perché il problema sorge nel dover determinare un criterio di demarcazione condiviso tra semplice vita biologica e vita umana, individuare un momento preciso in cui quella forma di vita può essere considerata persona, e conseguentemente soggetto di diritto, con tutti i diritti e doveri, con tutte le tutele e i riconoscimenti morali che ciò implica. L’inizio della vita, d’altronde, è un momento fondamentale della riflessione bioetica: le discussioni vertono innanzitutto su quando si possa dire che abbia effettivamente inizio la vita di un individuo, e cioè sullo statuto degli embrioni. Può l’embrione (cioè il prodotto del concepimento umano, prima che diventi un vero e proprio feto) essere già considerato una forma individuale di vita?
La bioetica di ispirazione cattolica e, più in generale, tutti coloro che si schierano per la sacralità e/o indisponibilità della vita propendono decisamente per una risposta affermativa: una persona è tale (e dunque un soggetto unico e irripetibile) fin dal momento del concepimento. La bioetica laica (che sostiene invece la disponibilità della vita) replica tuttavia che almeno fino al quattordicesimo giorno la divisione gemellare è sempre possibile e che dunque l’embrione non può ancora essere considerato come dotato di una sua propria assoluta e intangibile individualità (che è la ragione per cui, nella legislazione di alcuni Paesi, il limite dei quattordici giorni è stato adottato per distinguere una fase pre-embrionale da quella propriamente embrionale).
D’altra parte, la stessa tradizione cattolica (già con Tommaso d’Aquino) aveva a lungo ritenuto che la cosiddetta “anima razionale” fosse infusa da Dio solo al momento della formazione effettiva del feto, e non prima. Tuttavia, le posizioni più recenti della bioetica cattolica tendono a spostare più indietro questo limite: la vita dev’essere considerata inviolabile fin dal momento del concepimento, sia perché esiste una continuità biologica tra il prodotto del concepimento e la persona che da esso si sviluppa, sia perché la persona è già potenzialmente contenuta nell’embrione. Altre prospettive considerano definibile lo statuto personale dell’embrione solo dal momento in cui sembra possibile che esso sviluppi delle forme di sensibilità (la capacità di provare piacere o dolore, che precede evidentemente la razionalità vera e propria) al di là del livello di vita puramente fisiologico – un evento che viene usualmente collocato tra la diciottesima e la ventiduesima settimana di sviluppo.
La posta teorica ed etica di queste discussioni non concerne soltanto la possibilità di considerare in modo diverso l’aborto – un tema che peraltro chiama in causa, accanto alla questione relativa all’intervento su una vita umana in formazione, altri aspetti etici rilevanti, come quello dell’autodeterminazione delle donne – ma la disponibilità stessa degli embrioni in quanto tali. Non credo che l’aborto come pratica o idea piaccia a qualcuno: per la donna è una scelta difficile, perché è un’operazione invasiva, dolorosa e rischiosa; per molti altri è proprio orrendo il concetto, che non si configura necessariamente come infanticidio/figlicidio, ma è comunque la stroncatura di una vita biologica in atto e di una vita umana in potenza. Ed è anche per questa complessità, oltre che per criteri di liberalità etica, che la dialettica si è spostata dallo scontro manicheistico pro/contro l’aborto a quello liberale pro/contro la libera scelta della donna di disporre del proprio corpo in autonomia.
L’aborto non è più un diritto federale
Adesso, è noto a tutti quanto accaduto negli Stati Uniti negli ultimi giorni: la Corte Suprema americana si è pronunciata venerdì sul caso Roe v. Wade, una sentenza della Corte Suprema del 1973 (riaffermata dalla sentenza del 1992 Planned Parenthood v. Casey) che inquadrava l’aborto come un diritto costituzionale da ritrovarsi nel 9° emendamento sotto forma di diritto non enumerato, o nel 14° emendamento. Roe v. Wade ha finora garantito «la possibilità di abortire fino alla cosiddetta “viability“, ovvero la capacità del feto di sopravvivere fuori dal grembo materno, che all’epoca avveniva alla 28esima settimana di gravidanza, mentre ora può avvenire anche alla 23esima, grazie ai progressi tecnici. La Corte Suprema, in quelle occasioni, sancì l’aborto fino a tale limite come diritto costituzionale. Dunque, non era concesso ai legislatori imporre limiti inferiori a quello delle 23-28 settimane, mentre era possibile concedere termini più blandi», come ha spiegato Filippo Massari in un articolo molto puntuale uscito qualche giorno fa su Immoderati.
La sentenza della Corte Suprema di venerdì ha però ribaltato Roe v. Wade e Planned Parenthood v. Casey, stabilendo che l’aborto non è più un diritto garantito dalla Costituzione e che la decisione sulla legalità dell’aborto spetta ai cittadini e ai loro rappresentanti politici. «La sentenza non rende giuridicamente illegale l’aborto – prosegue Massari – ma trasforma quello che finora era un diritto garantito dalla Costituzione in una questione politica. L’effetto immediato o prossimo sarà però quello di limitare fortemente, e in certi casi impedire totalmente, l’accesso all’aborto in diversi Stati del Paese.» (per maggiori dettagli sulla sentenza, rimandiamo all’articolo dedicato)

Il diritto e i diritti
Tralasciando gli argomenti puramente bioetici pro-choice o anti-abortisti, credo che, prima di urlare in piazza slogan come “My body, my choice” o “Abortion is right” con così tanta leggerezza e approssimazione, sia fondamentale chiedersi cosa voglia dire veramente “diritto”. Nella sua accezione principale, il diritto è un insieme di regole che un gruppo si dà per organizzare la vita associata, le quali vanno poi a configurare l’ordinamento giuridico. Gli ordinamenti giuridici variano secondo i tempi, i luoghi e le circostanze, ponendo complessi problemi di coerenza e di armonizzazione. Tuttavia, espressioni come “non hai il diritto di” o “è mio diritto” rilevano che il diritto non è solo un complesso di leggi (diritto oggettivo), ma anche un potere o una qualità della persona, la facoltà di fare alcunché riconosciuta dall’ordinamento giuridico ai soggetti (diritto soggettivo).
Se proviamo a estendere ulteriormente il concetto, il diritto indica anche le esigenze rivendicate dai soggetti che vogliono essere riconosciute in un ordinamento che non le prevede (si pensi al diritto all’eguaglianza tra gli uomini, ai diritti delle donne, ai diritti fondamentali dell’uomo, ai diritti dei bambini): qui i soggetti si appellano a norme morali superiori a quelle sancite dalle leggi vigenti o a necessità maturate nell’evoluzione della società. La sfera dei diritti rivendicati tende ad allargarsi sempre in direzioni impensabili fino ai tempi precedenti e ciò, come ben sappiamo, apre una dialettica complessa fra morale, politica e giurisprudenza.
Alla base della filosofia del diritto e delle dottrine giuridiche, storicamente, si pone infatti la fondamentale distinzione tra due scuole di pensiero, correnti e approcci: il giusnaturalismo e il giuspositivismo. Il primo sostiene che alla base del diritto prodotto dagli Stati e dalle comunità politiche vi sia un diritto naturale, anzi dei diritti naturali, a fondamento di ogni altra legge umana, scritta e non. Nel pensiero greco e latino il diritto naturale era fondato su un ordine cosmico (giusnaturalismo antico), nel pensiero medievale sulla volontà di Dio, che stabiliva tale ordine (giusnaturalismo medievale). Ma è con la modernità che il diritto naturale si riconfigura come un’ideale razionale da cui dedurre le norme e ritrova il proprio fondamento nella ragione umana, comune a tutti gli individui (giusnaturalismo moderno o giusrazionalismo). Per i giusnaturalisti di ogni specie, le norme sono derivabili razionalmente dall’osservazione della natura e della condizione umana (i diritti umani, ad esempio, sono di stampo giusnaturalista) e le norme di diritto naturale non sono solo superiori e più fondamentali delle leggi poste nei codici, ma sono proprio il fondamento di ogni altro possibile diritto e la norma immutabile alla base dei diversi ordinamenti giuridici, che variano nel tempo.

A partire dalla prima metà del Novecento, però, il positivismo giuridico (o giuspositivismo) ha scalzato le tesi del giusnaturalismo e rappresenta la prospettiva giusfilosofica dominante negli ordinamenti giuridici contemporanei. Secondo il giuspositivismo, il diritto non ha un fondamento naturale, ma è valido in quanto posto (“diritto positivo” vuol dire infatti “diritto posto” dal legislatore) con una serie di norme giuridiche formulate e determinate secondo un metodo e sancite esplicitamente (“positivamente”) da un’autorità legittimata. In quest’ottica, il diritto diviene uno strumento per raggiungere scopi e non più la realizzazione di un ideale, dato che il positivismo giuridico ritiene possibile una trattazione scientificamente neutrale del diritto, ora considerato come un fatto e non come un valore. La sfera del diritto viene così separata da quella della riflessione etica e il diritto viene ridefinito come ciò che è prescritto, non ciò che è sentito come giusto.
Il diritto positivo ha fatto propri molti principi e valori morali tipici del giusnaturalismo: per questo, quando una norma di diritto naturale viene codificata e formalizzata in una norma positiva, cioè si traduce in legge scritta, allora si dice che un certo diritto naturale è stato positivizzato.
Giusto, legale o entrambi?
Alle norme di diritto naturale si fa appello nei casi in cui manchino leggi scritte e riconosciute, poiché nel giusnaturalismo, ma anche in molta altra filosofia del diritto, giustizia e legalità sono due cose molto diverse: una norma può essere legale e legittima ma non giusta (l’esempio classico è il processo di Norimberga), perché solo adottando una prospettiva giusnaturalistica è possibile identificare la giustezza di una norma, che evidentemente trascende la semplice correttezza formale della stessa. Assumere che le leggi razziali non siano giuste, nonostante a validarle sia il legittimo e indiscutibile Terzo Reich, vuol dire affermare che la giustizia è qualcosa che non si trova nella bontà o nella razionalità della legge in sé, ma si rintraccia aldilà di essa, alla luce di uno spettro di valori morali considerati universali (come i diritti naturali alla vita, alla libertà e alla proprietà o i valori della Rivoluzione francese di fratellanza, uguaglianza e libertà). Parlare di leggi giuste e ingiuste, insomma, vuol dire affermare che la giustizia non coincide con la legalità di una legge e che è possibile svelare l’ingiusto anche in una legge valida presente o, in altri casi, solo col passare del tempo e col mutare delle concezioni etiche nella storia.

Come scrive il professor Fabrizio Di Marzio, «Legalità e giustizia, una volta affiancate, si mostrano nella loro alterità. La carica problematica che si sprigiona dalla congiunzione tra legalità e giustizia può ricomporsi in un senso sotteso ma evidente: ‘legalità e giustizia’ varrebbe a dire ‘legalità per la giustizia’. Questa espressione può poi essere letta in un duplice senso: legalità quale scelta metodologica per raggiungere il traguardo della giustizia; legalità quale conseguenza di una scelta di giustizia (animata dal sentimento di giustizia che deve guidare così gli uomini come pure le istituzioni).» Nel momento in cui si trova una quadra, un punto di ottimo, una congiunzione tra giustizia e legalità, la prima è sovraordinata alla seconda, che si subordina alla giustizia.
Tre problemi del diritto
Ora, in battaglie come quella pro-aborto/pro-choice accade esattamente questo: la richiesta di riconoscimento del diritto all’aborto o al legittimo libero controllo del proprio corpo da parte della donna produce una positivizzazione di questo diritto, che diventa legge a seconda di criteri e parametri stabiliti per ragioni medico-sanitarie, chirurgiche, bioetiche ecc. Essendo tutto questo oggetto di regolamentazione giuridica, e quindi anche politica, il momento legislativo non ha nulla a che fare con la scienza medica, capace di individuare correttamente problemi, criticità, vantaggi e implicazioni dell’aborto sulla donna e sul feto. Ha senza dubbio a che fare con la bioetica e con le sue tesi, ma resta il fatto che finché un tema di natura scientifica viene preso dalla politica per tradurlo in qualche tipo di legge, quella legge non ha più nulla a che spartire con la scienza, e viene anzi valutata secondo altri criteri.
Non è un mistero, infatti, che la sentenza della Corte Suprema sia da molti considerata ingiusta (rispetto a un’ideale Giustizia che riusciamo a scorgere aldilà delle leggi umane), pur rimanendo valida. Purtroppo non ha problemi di incostituzionalità o illegittimità che consentirebbero a molti di darle contro: è una sentenza accettabile e non particolarmente contestabile dal punto di vista del rigore giuridico e della prassi. E questo per una serie di ragioni.

Innanzitutto, una sentenza negli Stati Uniti ha più peso, per esempio, di una sentenza in Italia per la differenza tra i rispettivi sistemi giuridici. Diversamente dalla nostra struttura di Civil Law, in cui il potere legislativo è completamente in mano ai Parlamenti (che possono arbitrariamente ascoltare i tribunali per legiferare su problemi emergenti), il diritto inglese, statunitense, australiano, neozelandese e di altri paesi angofoni è di Common Law: un sistema, cioè, in cui anche i tribunali sono produttori indiretti di diritto perché la legge si fonda in buona parte sui precedenti giuridici. Nei Paesi di Common Law, oltre a un ruolo legislativo del Parlamento come base, a produrre e costituire la norma sono anche i giudici e le loro sentenze, che si aggiornano nel tempo con maggior frequenza e sono molto più ricettive dei mutamenti bottom-up della sensibilità sociale e della complessità socio-culturale (in pratica, “ascoltano” molto meglio le istanze popolari, presentate sotto forma di casi giudiziari che altrimenti sarebbero stati imprevedibili per un legislatore top-down data la loro incredibile specificità e contestualità storico-sociale).
In secondo luogo, secondo il giurista e politologo Norberto Bobbio, per stabilire una teoria della norma giuridica, è necessario che ogni norma sia sottoposta un triplice ordine di valutazioni, distinte e indipendenti tra loro e con le quali tutti i giuristi giuspositivisti, normativisti e realisti si sono dovuti confrontare: giustizia, validità ed efficacia.
- Il problema deontologico del diritto riguarda la giustizia, ossia corrispondenza o meno della norma ai valori di un ordinamento giuridico ed equivale a domandarsi se quella norma sia atta o meno a realizzare i valori storici che ispirano quel concreto e storicamente determinato ordinamento. Stabilire se una norma sia giusta o meno è un aspetto del contrasto tra mondo reale e mondo ideale accennato prima, cioè tra ciò che dovrebbe essere (prescrizione, Sollen) e ciò che è (descrizione, Sein), giusto per richiamare la fallacia naturalistica di Moore.
- Il problema ontologico del diritto riguarda la validità, ossia l’esistenza della regola in quanto tale, che viene risolta con un giudizio di fatto. Per decidere se una norma sia valida (cioè esista come norma giuridica appartenente ad un determinato sistema), bisogna accertare che 1) l’autorità che l’ha emanata avesse il potere legittimo di emanare norme giuridiche; 2) che non sia stata abrogata; 3) che non sia incompatibile con altre norme del sistema, in particolare con una gerarchicamente superiore o con una successiva. Tutto questo perché la validità è una qualità intrinseca del diritto.
- Il problema fenomenologico del diritto riguarda l’efficacia, ossia se una norma sia o no rispettata dalle persone a cui è diretta e, nel caso in cui sia violata, se sia fatta valere dall’autorità che l’ha posta. La ricerca per accertare l’efficacia o l’inefficacia di una norma, che dipende dalla condotta umana, è una ricerca storico-sociologica che si rivolge allo studio del comportamento dei membri di un certo gruppo sociale (sociologia del diritto).
Una norma può dunque essere giusta ma non valida, valida ma non giusta, valida ma non efficace, efficace ma non valida (come nel caso delle consuetudini, della buona educazione, del diritto consuetudinario: nessuna consuetudine è norma solo per il fatto di essere efficace, essa lo diventa solo se viene riconosciuta dall’autorità come valida), efficace ma non giusta (la giustizia è indipendente dalla validità, ma anche dall’efficacia) e infine giusta senza essere valida. Questi tre problemi del diritto sono riconducibili a un unico problema centrale, che è poi lo scopo di tutta l’esperienza giuridica: organizzare al meglio la vita degli uomini in società.

Molti teorici si sono interrogati su questi tre problemi/criteri, proponendo delle tesi riduzionistiche per comprenderli meglio:
- se si riduce la validità alla giustizia, per cui una norma è valida solo se è giusta, si ricade nel giusnaturalismo;
- se si riduce la giustizia alla validità, per cui una norma è giusta in quanto è valida, si ricade nel giuspositivismo;
- se si riduce la validità all’efficacia, per cui il diritto reale è solo quello applicato effettivamente dagli uomini durante la loro esistenza, e non quello scritto, ma rimasto inapplicato, nelle carte e nelle costituzioni, si ricade in una terza corrente, nota come realismo giuridico (giusrealismo), che fonda la validità del diritto sulla sua effettività ed efficacia e di cui gli USA hanno prodotto una specifica sottocorrente, il realismo americano.
La sentenza della Corte Suprema, dunque, è accettabile normativamente perché è sicuramente legale (siccome ha valore di legge nel sistema di Common Law americano), è senz’altro valida (in quanto validata dalla stessa autorità giuridica e federale che l’ha emanata) ed è sicuramente efficace (la sua ricezione ed attuazione da parte degli Stati federali non ha tardato ad arrivare). Alla domanda se sia anche giusta, il dibattito è ancora aperto e si torna sulla bioetica, ma una cosa è certa: che la pratica abortiva sia declassata dal rango di diritto federale e sia rimessa nelle mani degli Stati, delle legislazioni locali, non è necessariamente una tragedia, almeno nella misura in cui quantomeno si lascia a ogni Stato la facoltà normare e disciplinare il fenomeno, “ascoltando” la volontà popolare e legiferando ad hoc. Se poi in futuro ciò porterà a un divieto generalizzato o a un riconoscimento generalizzato dell’aborto in tot. Stati, solo il tempo potrà dircelo.
Diritti, pretese e libertà

Nella sua effettività, ogni ordinamento giuridico vive grazie a una negoziazione sociale, in cui ognuno di noi avanza pretese sul comportamento altrui (come il non voler essere aggredito) e questo intrecciarsi di pretese produce l’emergere di norme, in maniera non dissimile da quanto avviene sul mercato quando l’incontro di domanda e offerta produce il manifestarsi di prezzi. Nel saggio “Il diritto come pretesa” del 1964, il giurista e politologo Bruno Leoni definisce il diritto come il risultato, il prodotto o l’esito dell’incontro tra le pretese degli individui, i quali, con i loro valori, con le loro pratiche, con le loro azioni quotidiane, delineano il quadro giuridico di fondo, al punto che le stesse leggi promulgate dai parlamenti sono efficaci se sanno mettersi in sintonia con questa rete di relazioni sociali (meccanismo alla base dei sistemi di Common Law, peraltro).
Sicché, come accennato prima, l’assunzione che alcune cose siano dei diritti e non delle semplici richieste politiche o pretese sociali è sintomo di un approccio giusnaturalistico all’etica normativa, tale per cui si chiede al legislatore o al decisore politico di “concedere” dei diritti, che si credono esistenti e giusti a prescindere da ciò che dicono i codici giuridici prodotti dall’uomo. Il problema è che, dopo essere state recepite determinate istanze dal basso, il diritto è infine qualcosa di inevitabilmente costruito. Si può derivare razionalmente, certo, ma alla fine, per avere validità ed efficacia, deve essere posto. E capire cosa significhi “derivare razionalmente il diritto”, dal momento che la legge di Hume vieta di derivare il prescrittivo (la norma) dal descrittivo (lo stato delle cose) perché sarebbe un salto logico insensato, è un problema. Così come è un problema capire se questo o quel diritto sia effettivamente “scoperto dalla ragione” o solo “inventato e creato ad hoc” sulla base di problemi concreti.
Alla luce di questa lunga disamina, dunque, la vera domanda è: l’aborto è effettivamente un diritto?

La risposta più diplomatica, ma comunque brutale, è “probabilmente no“, ma mi spiego subito:
- se consideriamo diritto il diritto naturale, l’aborto non è qualcosa di inscritto nella natura umana, ma appartiene a un più ampio range di libertà che possediamo, quindi non è un diritto naturale e non è un diritto in sé;
- se consideriamo diritto il diritto posto dall’autorità, allora l’aborto è considerato un diritto unicamente nei Paesi che lo hanno legalizzato;
- se consideriamo diritto una pretesa legittima che noi avanziamo nei confronti dell’autorità o del sistema sociale, allora l’aborto non è un diritto strictu sensu, sia per la complessità della riflessione bioetica (che mette in dubbio, in alcuni frangenti, la legittimità di questa pretesa), sia per il suo ambiguo inquadramento etico-giuridico.
Guardando infine alle implicazioni dell’aborto sulla salute o sulla libertà della donna da una parte e sulla vita del futuro nascituro dall’altra, non si può ritenere a cuor leggero l’aborto come un diritto legittimo e pacifico, ma serve comprendere meglio le ragioni delle diverse posizioni. Aldilà che sia giusto fissare dei limiti, come fanno le legislazioni esistenti in materia, in base alle conoscenze biologiche sull’argomento, diritto è proprio una categoria concettuale sbagliata in cui inquadrarlo: disponendo delle competenze e delle tecnologie per praticarlo e immaginandoci in uno stato di completa anarchia o libertà, uno “stato di natura” evoluto, diciamo, possiamo desumere che la libera facoltà di praticare l’aborto sia nelle nostre possibilità e facoltà aldilà dei vincoli e delle responsabilità morali imposte dall’alto o da noi stessi.
In un’interessante intervista sul tema, il politologo Alberto Mingardi, presidente e fondatore dell’Istituto Bruno Leoni, ha affermato: «Non da liberale ma da essere umano, posso solo dirle che si tratta di questioni che a me fanno tremare i polsi. Chi rivendica la libertà di scelta della donna sopra ogni altra cosa finge di non vedere che c’è comunque un’altra vita in ballo. Chi sventola manifesti “pro vita” finge di non capire che si tratta di decisioni prese spesso in momenti difficilissimi e in contesti sociali altrettanto difficili, da persone magari giovanissime che vedono franare ogni piano di vita… Mi sembra che l’aborto legale sia nettamente meno peggio del contrario, in ragione delle conseguenze che la sua criminalizzazione potrebbe avere. Ma mi spaventa la retorica dell’aborto come diritto, quella dei meme e delle t-shirt di questi giorni, perché prelude a una sorta di routinizzazione dell’interruzione di gravidanza. La libertà è anche il dolore di certe scelte, non vanno banalizzate».

In quanto pretesa difficile da sbrogliare sul piano morale, giuridico e politico, l’aborto non può essere considerato un diritto (e alcuni argomenti degli anti-abortisti supportano dignitosamente questa tesi), anche perché porta con sé implicazioni problematiche e contraddittorie, ma deve essere riaffermato vigorosamente come una libertà individuale e inalienabile: se è vero e pacifico ritenerlo moralmente ambiguo e complicato da risolvere, e la discussione qui va su altri lidi, è altresì indubitabile che quella di voler praticare l’aborto sia una libertà fattuale, che non si può negare o misconoscere alle donne, in quanto proprietarie del loro corpo, responsabili dello stesso e delle implicazioni di questa scelta. Soprattutto non conviene farlo: non solo per la pace sociale, ma anche perché, se è verò che l’autonomia dell’agire e la libertà si portano dietro la responsabilità morale delle proprie azioni, la pro-choice è l’unica prospettiva utile alla causa sia dei pro che degli anti-aborto, l’unica garanzia che la scelta sia oculata e fatta con ponderazione, l’unico presidio per evitare eccessi da una parte e dall’altra, nei confronti della donna o del feto. E finché una libertà non danneggia la vita altrui (relazione madre-figlio a parte), è illiberale vietarla o disconoscerla.
«La libertà mi sembra sia solo quella della donna, perché essere vivo e in qualche misura in grado di compiere scelte autonome è una precondizione della libertà. E questa il feto non ce l’ha. – prosegue il professor Mingardi – Ma c’è il conflitto fra la libertà di usare il proprio corpo nel modo in cui si ritiene e una vita “in potenza”. Nel caso degli adulti, in alcune condizioni noi dichiariamo la “morte cerebrale” e sosteniamo che la vita umana in qualche modo degeneri a vita meramente biologica. Succede il contrario col feto: ma quando? In che momento preciso? Sono tutti dibattiti nei quali, alla fine, si arriva a qualche soluzione imperfetta, perché non ve ne sono altre. Il fatto che un comportamento non sia “proibito” non significa che debba piacere a tutti e a tutte. Prendiamo atto della drammaticità delle scelte e riconosciamole come difficili. È proprio per questo che debbono essere libere».
Per dirla con Kant, è giunto il momento di riprendere in mano le redini della nostra autonomia morale. Questo discorso, beninteso, vale tanto per il diritto all’aborto, quanto per quelli alla riproduzione e alla nascita, quanto per tutta una serie di altri supposti diritti fondamentali. Basta con questa retorica dei diritti per ogni cosa, a tutti i costi, sempre e ovunque. Smettiamola di ragionare in termini di diritti da pretendere, lasciando sempre all’autorità pubblica il potere e l’arbitrio di decidere per la nostra vita, di dosare col misurino le cose che ci permette di fare e tenendo sempre la briglia serrata, e ricominciamo piuttosto a ragionare in termini di libertà da riconquistare e ripristinare. Perché se c’è una differenza tra diritto e libertà, è che il primo deve essere sempre pensato e costruito su misura, la seconda solamente restituita: laddove il diritto è necessariamente concesso, la libertà va solo riconosciuta.